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«Non c’è minaccia più grande per i critici, i cinici e i seminatori di paure di coloro fra noi che sono disposti a cadere perché hanno imparato a rialzarsi. Con le ginocchia escoriate e i cuori infranti, scegliamo di riconoscere i nostri vissuti difficili, invece di nasconderci e fingere. Siamo noi gli autori delle nostre vite. Siamo noi a deciderne i coraggiosi risultati. Traiamo amore dalla disperazione, compassione dalla vergogna, benevolenza dalla delusione, coraggio dal fallimento, forza dalla fragilità. Scoprirci è il nostro potere. La narrazione è la strada verso casa. La verità è la nostra canzone. Noi siamo i coraggiosi e affranti. Noi ci rialziamo più forti di prima.»
È la mattina dell’11 settembre 2001. I voli American Airlines 11 e United Airlines 175 vengono dirottati sul quartiere di Lower Manhattan di New York. L’uno si schianta contro la Torre Nord, l’altro attraversa la Torre Sud, tagliandola in due. Bastano un’ora e 42 minuti perché le torri crollino, portandosi via la vita di 2.977 persone, lasciando un profondo cratere nel cuore di New York. Le Torri Gemelle, simbolo della forza economica degli Stati Uniti, vengono abbattute con due aerei di linea. Interni, vulnerabili, privi di difesa.
Di quel giorno ricordo che stavo studiando seduta al tavolo della cucina, mentre avevo in sottofondo una puntata di Holly & Benji. E poi l’interruzione improvvisa del palinsesto, la cucina di casa vuota, le immagini dello schianto, le grida, la polvere, la telecronaca in diretta con mille ipotesi diverse, minuto dopo minuto. Ricordo lo squillo del telefono di casa, la mia amica Lucia concitata che, dall’altro capo, mi dice “Scoppierà la Terza Guerra Mondiale” e io a chiedermi cos’avrei fatto, con e dentro la guerra. Avevo diciott’anni e non sapevo di aver assistito all’evento che avrebbe cambiato per sempre la storia dell’Occidente degli ultimi vent’anni.
Inizia così la storia di un’intera generazione di diciottenni alle prese con la vita, con la prima sterzata brusca dell’Occidente verso l’ignoto. Vulnerabili, privi di difese interne. Come gli Stati Uniti d’America.
Immagino che in quei giorni ognuno di noi abbia dato una risposta diversa a quell’evento. Io ho scritto moltissimo. E ho letto molto, anche, per capire quell’Oriente che era un grande mare di nomi complessi e diversità culturali. Ho imparato le tradizioni, studiato la religione e il ruolo della donna. Ero convinta che per comprendere qualcosa, qualcuno, si dovessero studiare tre cose: il loro credo, il rispetto per gli altri esseri viventi, le radici ancorate al territorio.
All’11 settembre, Gerard e Mikey Way, due poco più che diciottenni del New Jersey, danno una risposta diversa: decidono di fondare una band musicale, i My Chemical Romance. I fratelli Way sono appassionati di fumetti, letteratura, film horror, giochi di ruolo. Il risultato, è trasformare la musica in uno spazio per raccontare storie. Storie complesse, non della durata di una canzone.
Già il loro nome, ci fa capire che non siamo davanti a una band come tutte le altre. Mikey Way si ispira a una raccolta di racconti di Irvine Welsh, Ecstasy: Three Tales of Chemical Romance. E, per rimanere ancorati allo sconfinato amore per le storie, a una settimana dalla registrazione del primo album, si unisce al gruppo Frank Iero, chitarrista e cantante dei Pencey Prep. Il nome non ti dice nulla? È l’istituto frequentato dal giovane Holden, il protagonista-simbolo del romanzo di Salinger. I My Chemical Romance lavorano su concept album dallo storytelling molto forte, supportati da un’estetica coerente e molto evocativa. Fumettistica. Perché il destino - e il sogno - di Gerard Way non è quello di fare il cantante - o meglio, non solo - ma di diventare un fumettista famoso. E ci riesce.
Nel 2007 Gerard Way e Gabriel Ba pubblicano il primo volume di Umbrella Academy. Ma facciamo un passo indietro e riavvolgiamo il nastro di questa storia.
«Il finale di Black Parade mi sembrava molto naturale. Andare oltre sarebbe stato come tradire un comandamento artistico che avevo dentro di me», ha detto Gerard.
La storia di Danger Days è incentrata su una banda di quattro vigilantes che vive nel deserto della California intorno a Battery City, in uno scenario post-apocalittico. La trama che si sviluppa tra i testi è complessa e riguarda la lotta dei Killjoys contro la corporazione, e tratta problemi sociali, artistici e politici. La storia della creazione di Danger Days è interessante. Con un album pronto per l’uscita, tecnicamente perfetto, i My Chemical Romance si rendono conto che non è la storia che vogliono raccontare e buttano via tutto il lavoro fatto. Gerard Way si ritira nel deserto della California a lavorare su un fumetto che parla di quattro vigilantes alle prese con vampiriche corporazioni e il salvataggio di una ragazzina che è la speranza per il futuro. E così, Way ha un’epifania: quella è la storia che possono - che vogliono - raccontare, con il loro ultimo album.
Questa puntata parla della band che non ho mai smesso di amare. Ma non è solo un tributo ad artisti con cui condivido visioni, immaginario, ideali.
È una puntata che parla del fare a modo tuo, sempre. Del trovare quel filo rosso che, da sempre, costella e rende la tua vita un po’ più magica, un po’ più vibrante e forte.
Nel mio caso, quel filo rosso è la scrittura. Sono le storie.
E il tuo, qual è? Quel filo rosso può avere molti nomi: dharma, daimon, vocazione. Scegli tu quello che preferisci, ma sappi che è quella cosa che ti appartiene da sempre e ti apparterrà sempre, quel qualcosa che nessuno potrà mai portarti via, anche quando l’hai messa all’angolo della tua vita.
È una puntata che ti parla di rinnovamento ed evoluzioni, restando fedele al tuo fuoco centrale. Come i My Chemical Romance, invariabilmente sé stessi nel cambiare pelle, mai sostanza.
È una puntata che ti parla del sapere mettere la parola “fine”, quando non hai più nulla da raccontare. Di saper cambiare rotta, quando quello che hai fatto non aderisce a te, dove manca una parte importante di chi sei in ciò che fai.
Dove, nella ricerca della perfezione, tradisci la tua anima.
È una puntata che ti ricorda di attingere a tutto il tuo immaginario per creare un brand forte, riconoscibile anche nella trasformazione che è evoluzione.
Mettiti in ascolto del contesto sociale, politico, culturale e artistico in cui vivi. Cosa influenza il tuo brand, i tuoi valori, i tuoi ideali?
Quando pensiamo al nostro brand abbiamo sempre la tendenza a focalizzarci sui bisogni e le necessità, ma viviamo in un mondo fatto di ideali, di valori. Un mondo complesso che ci invita a condividere una visione unica, dettata dalle nostre esperienze. La comunicazione è fatta di pieni e vuoti, di grande consapevolezza, di scelte. Ed è fatta soprattutto di "voglio".
La musica avvicina, basta pensare ai concerti e alle emozioni che proviamo sotto un palco. Ecco, la comunicazione e lo storytelling del tuo brand dovrebbero essere così: avvicinare le persone. Tra di loro, e a te.
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Sono Alessia, digital strategist e facilitatrice in libroterapia umanistica. Mi occupo di strategie di comunicazione e marketing sostenibili per business al femminile. Dove al centro, ci sei tu.