Un marketing infuso di emozioni e di magia.
Non tutti apprendiamo allo stesso modo, ma tutti amiamo farlo. Chi con più o meno consapevolezza. Quando parliamo di romanzi, riusciamo a raggiungere un certo tipo di pubblico, ma se iniziamo ad ampliare lo sguardo e arriviamo a parlare di storytelling, allora siamo costretti a fare i conti con un gruppo più ampio da raggiungere. Storytelling è l'arte di raccontare, a prescindere dal mezzo. A ben vedere, i social network hanno cambiato il nostro modo di raccontare e vedere il mondo. L'informazione grazie al web è diventata veloce, talvolta inesatta, frammentaria. Lo storytelling ne ha subito le conseguenze, rischiando di perdere i suoi punti di forza e costringendosi ad amalgamare i linguaggi in cerca della formula del successo della comunicazione rapida. Se da un lato la pubblicità è riuscita a unificare i linguaggi in modo armonioso grazie al lavoro dei copywriter, non è così scontato che anche sui social network il risultato sia altrettanto eccellente.
Tutt'altro.
Per questo è importante comprendere le differenze tra lingua e linguaggio: per utilizzarle nel modo più corretto e comunicare in modo efficace.
Lo scopo di chi comunica qualcosa, di chi crea utilizzando uno specifico linguaggio, è evocare.
Etimologia: ← dal lat. evocāre, comp. di ĕx- ‘fuori’ e vocāre ‘chiamare’; propr. ‘chiamare fuori’, quindi ‘evocare, richiamare’.
1. chiamare dal mondo dei morti grazie a poteri paranormali o magici [+ da]: evocare gli spiriti dall’oltretomba | nominare qualcosa o qualcuno che, inaspettatamente, avviene o compare subito dopo: ieri ho evocato il pacco che aspettavo, e oggi è arrivato!
2. richiamare alla mente; ricordare con intento celebrativo: evocare il passato; Me ad evocar gli eroi chiamin le Muse (FOSCOLO Sepolcri 228) | ricreare in maniera suggestiva: il ritmo lento e cadenzato evoca un’atmosfera cupa
3. (dir.) citare in giudizio
Lingua e linguaggio non sono la stessa cosa: la lingua serve per trasmettere informazioni e comunicare, il linguaggio per esprimere un messaggio e trasmettere emozioni. Ogni linguaggio è funzionale e riferibile a uno o più sensi dell'uomo. A seconda del linguaggio che andremo a scegliere, riusciremo anche a inquadrare il nostro pubblico di riferimento. Ogni lettore possiede un linguaggio di comunicazione e apprendimento preferenziale. Sarà quello in cui ci risulterà più immediato rifletterci, con cui ci sentiremo più a nostro agio quando comunicheremo un messaggio importante e che sarà per noi più facile da ricordare.
Questa digressione è nata in modo quasi spontaneo da una riflessione che ha apportato Lirin a un mio vecchio articolo, "Non ora, non qui", che ha quasi abbandonato la scrittura in favore di altri metodi di espressione a lei più congeniali.
Ci avevo provato a scrivere storie, con risultati che lascio giudicare agli altri, ma col tempo ho scoperto che non era il modo di esprimermi a me più congeniale.
Ho trovato altri modi che mi calzano meglio che onestamente non so a quanto pubblico portino quel che ho da dire ma credo che ogni messaggio, ogni pensiero, abbia un suo proprio mezzo di comunicazione, che magari cambia da persona a persona.
Sperimentare è essenziale. Spesso non sappiamo quale sia il linguaggio attraverso il quale ci risulta più facile esprimerci a causa del bombardamento mediatico a cui siamo sottoposti. Ho provato un po' di tutto: il teatro, la fotografia, l'illustrazione digitale, la scrittura. Quello che posso dire è che ogni mezzo che ho attraversato mi ha portato a migliorarmi, a capire meglio me stessa e il mio modo di vedere e filtrare il mondo.
Dalle mie sperimentazioni ho compreso le esigenze del mio corpo e gli ho dato un peso, quando si colloca nello spazio di una stanza, come se fosse diventato tridimensionale all'improvviso, dentro una scatola nera. Ho imparato che è più facile emozionarmi con le immagini che con le parole e che solo pochi sono riusciti a farlo attraverso la prosa di una buona storia, che il mio odio per il fantasy mi incanta la retina quando lo vedo sotto forma di arte visiva.
Emozionare con le parole non è affatto facile. Il mio amore per le arti visive credo sia da ricercare tra gli anni della mia adolescenza, da quando iniziai a leggere manga all'età di tredici anni. Sono stati fedeli compagni in notti di stelle al chiarore di una luna estiva immensa, in notti buie di luna nuova fatte di plaid, tè e biscotti adagiati sul comodino, pericolosamente in bilico tra legno e pavimento. Questo è uno dei motivi per cui non amo le recensioni: non tutti riusciamo a percepire in modo identico la medesima prosa. Se sul contenuto possiamo misurare in modo oggettivo la potenza di una buona storia da un frullato di cliché, la differenza emotiva risiede nel come siano stati raccontati quei fatti, quelle storie. L'ultimo romanzo che mi ha commossa è stato "My Little Moray Eel" mentre quello che mi ha fatto versare più lacrime di tutti, immagino sia stato "Speak", invece. Romanzi diversissimi tra loro - un distopico e uno young adult - che mi hanno coinvolta con grande forza. Questo per dire che non importa quello che viene raccontato, ma il come viene fatto.
Le lettura è questione di pancia, così come la scrittura. Possiamo sciorinare tutte le regole del mondo, decidere di apprenderle per poi infrangerle come tanti piccoli ribelli, ma se non sapremo coinvolgere chi ci legge, se non sapremo metterci nei suoi panni e in ciò che cerca, non riusciremo mai a emozionare. E un romanzo tecnicamente perfetto ma che non riesce a trascinare via il lettore dalla realtà, è un trattato scientifico. Per questo è importante capire quale sia il proprio mezzo espressivo, quello più adatto alla nostra prosa e alle nostre tematiche.
Il nostro cervello processa le informazioni attraverso due emisferi. Quello occipitale elabora informazioni visuali, spaziali e la percezione del colore. Quello temporale è legato all'udito e memorizza facilmente discorsi, azioni verbali ed emozioni. Cosa accade quando leggiamo senza prendere appunti? L'emisfero occipitale fatica a percepire tutto ciò che stiamo leggendo (o ascoltando) e dunque vengono processate da quello temporale, che però non riesce a distinguere quali siano le informazioni più importanti da quelle superflue. Quando lessi l'articolo di Roberta sulla funzionalità e la forza della scrittura a mano, mi decisi a prendere il tempo che passa dall'idea alla penna e sfruttarlo a mio vantaggio, per rendermi conto di quante amenità il mio cervello rischierebbe di produrre lavorando a briglia sciolta, come una mano che si muove in piena autonomia rispetto al resto del corpo facendo danni irreparabili.
Scrivere a mano ci impone di rallentare il ritmo di ciò che stiamo facendo. Battendo al computer direttamente tutto ciò che creiamo, impieghiamo la metà esatta del tempo che ci vorrebbe per farlo manualmente. Cosa accade, dunque? Se soffrite di grafforea come me, utilizzerete quel secondo e mezzo di scarto per riempire lo spazio bianco con informazioni inutili che odorano di spazzatura. Se siete bravi e scrivete tutto prima a mano e poi lo ripassate al PC, vi accorgerete di come ciò che scrivete sia più fluido e snello, con la ricerca di parole che calzano in modo perfetto alla situazione che state proponendo.
Provare per credere!
Voi scrivete al PC o prima a mano i vostri romanzi?
Qual è il linguaggio che vi coinvolge con più forza?
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Sono Alessia, digital strategist e facilitatrice in libroterapia umanistica. Mi occupo di strategie di comunicazione e marketing sostenibili per business al femminile. Dove al centro, ci sei tu.